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Questa fatica


di Paolo Veronese


Un’opera che sia una gran fatica (letteraria): mi basterebbe giungere a termine di questa pagina, senza sbavature o parole mozze e sovraimpresse, titubanti piombini che partono come una raffica di mitragliatrice; terminare una lettera, fronteggiando l’inesorabilità di una Olivetti d’epoca andata, come davanti a un plotone di fucilieri. Cedere alla sapienza del metallo, alla drammatica battuta di una minuscola catapulta che ti incide sul foglio un marchio indelebile, un sigillo che nell’eternità del minuto sembra accusarmi d’indolenza. Sarà, per carità, il mio spirito oblomoviano, a lamentare l’inefficacia dell’esperimento. Quanta fatica, dalle dita pare salire su per la mano e per il braccio, insetto occulto in direzione del cuore, oh, povero cuore. Ricordo che Nietzsche, mentre usava una delle prime macchine da scrivere, una Writing Ball che sembrava un puntaspilli, notava come la prosa assumesse secchezza e velocità nel suo svolgersi, che il pensiero stesso fosse sedotto dal nuovo strumento, che addentasse la pagina con morso nuovo. Non mi viene la poesiola (sciocchina) che dedicò al marchingegno, certo è che aveva visto lungo. Be’ e questa mia farsa, che indietreggia nel passato scollegando il pensiero al nervo precipitoso delle magnifiche sorti e progressive della scrittura ipereccitata di ‘oggi’; perdendo il tram a bella posta e lasciando il cellulare sopra il sedile e al proprio destino. L’anima è qui, mi ripete una voce, e il resto è oltre il confine inaudito, perso nella vanità del mio Qohelet. Che pretese! Come se non ci fossero diecimila che mi precedono! Rallentare e giungere dove, a rabberciare qualche poesia scritta con la fatica e con i crampi, o inviarti una noiosa lettera senza preciso capo né coda. Non arriverò a termine della pagina, dovessi ritentare cento volte e sprecare il nastro, sporcando la carta, per una veniale voglia di ascoltare il rumore delle parole. Spararsi in bocca, magari, farsi travolgere dall’ultimo tormento che si dissolve in silenzio e fili di sangue. Come fece il Morselli con la sua Browning. Oppure smettere di scrivere – quanti romanzi ho abbandonati ai primi capitoli, odiando la costanza che mi chiedevano i miei fittili personaggi – un silenzio buono, da riempire di masticazione, tabacco o canto gregoriano. Smettere la poesia, strapparsi il crepacuore e gli amori non corrisposti, un taglio e via, si torna a camminare in un altrove, un paese ignoto. Sole e acciaio. Cosa perturba un’anima costringendola nei quattro canti di una pagina, forse è la domanda più antica del mondo, anche quando non esistevano alfabeti, è strutturale, inevitabile, e il Manganelli del Discorso dell’ombra e dello stemma ce lo insegna, insuperabile prosa, implacabile col prigioniero che vi si addentri. Come posso scivolare fuori dal testo, per camminare da bipede un po’ zoppo, e parlare ancora a qualcuno? Non l’ho mai fatto per davvero, un ragazzino isolato nel suo mondo interno non lo farà mai. Come si chiacchiera, come si batte a macchina o sul pianoforte, come si accarezza una donna, come si può sopravvivere al mondo? Eh già, raccontandoci bugie.


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