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Lineas visum effigientes

di Venator Animarum


La celebre scena narrata da Plinio nella Naturalis Historia (XXXV, 81–83) si carica di una potenza simbolica ed estetica straordinaria, al punto da assumere, nel tempo, una valenza mitica: non soltanto aneddotica, ma paradigmatica di un’intera concezione della tecnica artistica come luogo di epifania del genius greco e della traditio classica.



Il racconto



Siamo a Rodi. Apelle, il massimo pittore dell’antichità greca, visita la bottega di Protogene, suo stimato rivale. Non trovandolo, Apelle lascia la traccia del suo passaggio tracciando, sulla tavola, una linea sottilissima: una pura dimostrazione di perizia. Protogene, al ritorno, riconosce la mano del maestro e, per rispondere, traccia una linea ancora più sottile sopra la precedente. Apelle torna e ne disegna una terza, ancora più impercettibile, che taglia le due precedenti. Quando Protogene vede quest’ultima, dichiara chiusa la gara: nulla può essere aggiunto a quella suprema finezza del segno.


Il quadro — ormai non più rappresentazione, ma testimonianza vivente dell’eccellenza tecnica, simbolo dell’incontro tra due spiriti affini — non viene mai completato: viene custodito così com’è, nella sua forma di palimpsesto ideale, prima a Rodi, poi a Roma, nel Palazzo dei Cesari, dove arderà in un incendio, ma non prima di essere diventato, secondo Plinio, più celebre di molte opere finite.



Lineas visum effigientes



Plinio scrive:


“Lineas visum effigientes.”

Linee che “danno forma alla vista”, che quasi evocano la visione stessa. In questo gesto minimalissimo — il segno che non rappresenta, ma testimonia — si gioca il passaggio dalla mimesi all’astrazione, dalla techne alla metis, dalla competizione all’iniziazione.


Queste tre linee diventano emblema della trasmissione del sapere artistico, non per spiegazione ma per riconoscimento, non per imposizione ma per emulazione. In esse si compie un gesto che è insieme sfida, abbraccio, passaggio del testimone: la traditio come gesto visibile e invisibile, come ciò che resta (la linea) e ciò che scompare (la mano che l’ha tracciata).



Dal greco al romano: la trasfigurazione del classico



Questa tavola — che non contiene altro che linee — assurge a oggetto sacro della cultura classica. Simbolo di:


  • una bellezza che nasce dal rigore e dall’autocontrollo, non dall’esuberanza;

  • una tradizione che non è imitazione servile, ma tensione a un ideale irraggiungibile;

  • un’etica della forma che supera la materia.



Il mondo romano la eredita, la venera, la colloca nel centro simbolico del potere imperiale. In questo passaggio, la grecità diventa classicità, cioè canone: qualcosa da custodire, tramandare, onorare — e, al tempo stesso, qualcosa che arde e si perde, come nel destino della tavola.




Riflessione conclusiva



L’episodio di Apelle e Protogene è insieme mito fondativo dell’arte occidentale e parabola iniziatica: il disegno come forma di conoscenza segreta, trasmessa per simboli e riconoscimenti silenziosi; la competizione sublimata in comunione; la linea come traccia dell’intellectus agens artistico.


Potremmo leggerlo come una sorta di epifania del Classico stesso: non ciò che si impone per potere o per moda, ma ciò che si riconosce per qualità intrinseca, e che può solo essere trasmesso nel gesto, non nel discorso.


Un gesto che, proprio perché minimo, contiene l’assoluto.




Si ripropone, per consiglio di lettura, il bello studio di Paolo Moreno sulla pittura di Apelle


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