Federico Zeri e la fotografia in bianco e nero: un’epistemologia dello sguardo
- Artificioſa Rota
- 20 ago
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di Venator Animarum
Federico Zeri, tra i più influenti storici dell’arte e connoisseurs del Novecento, è noto non solo per le sue straordinarie capacità di attribuzione e catalogazione delle opere, ma anche per la particolare predilezione verso l’uso della fotografia in bianco e nero come strumento privilegiato di studio. Questa scelta, che può apparire controintuitiva in un’epoca in cui la fotografia a colori già si diffondeva rapidamente, rivela in realtà un preciso orientamento metodologico ed epistemologico, radicato in una concezione del vedere che ha segnato la sua pratica critica e la sua didattica.
1. Il bianco e nero come riduzione essenziale
Per Zeri, il bianco e nero operava una sorta di riduzione fenomenologica. L’assenza di colore non era una privazione, ma un filtro capace di eliminare ciò che poteva distrarre l’occhio del conoscitore. Nel campo della storia dell’arte, il colore porta con sé ambiguità: le vernici alterate, le patine del tempo, i restauri arbitrari, i riflessi della luce fotografica possono facilmente ingannare. Il bianco e nero, invece, riconduce l’immagine a una sintesi di linee, volumi e rapporti chiaroscurali. In questo senso, esso permette di esercitare uno sguardo più puro, più concentrato sull’“ossatura” dell’opera, ovvero sulla struttura disegnativa e formale che, per lo storico e il conoscitore, è il primo passo per il riconoscimento della mano di un artista.
2. La tradizione della connoisseurship
La scelta di Zeri si inserisce in una lunga tradizione di connoisseurship ottocentesca e novecentesca. Già Giovanni Morelli, padre del metodo attributivo fondato sull’analisi dei dettagli, si serviva inevitabilmente di incisioni e fotografie prive di colore per affinare il confronto visivo. Lo stesso Bernard Berenson, maestro riconosciuto da Zeri, privilegiava l’osservazione delle forme e dei valori plastici rispetto alla resa cromatica. Per lo storico dell’arte-conoscitore, l’identità di un autore non si manifesta innanzitutto nella tavolozza, ma nel modo in cui egli costruisce mani, orecchie, panneggi, curve di profili: elementi che emergono più nitidamente in assenza di colore. Zeri, dunque, non era un isolato ma un erede rigoroso di questa tradizione, che aveva fatto del bianco e nero un codice visivo e uno strumento didattico imprescindibile.
3. Il valore documentario e archivistico
L’archivio fotografico di Federico Zeri, oggi conservato presso la Fondazione Zeri dell’Università di Bologna, stando al lascito testamentario tradito da Mentana, rappresenta una delle più grandi raccolte private di immagini d’arte del Novecento. La scelta di catalogare quasi esclusivamente stampe in bianco e nero aveva anche un valore pratico e archivistico: la stampa monocromatica era più economica, più diffusa e soprattutto più durevole rispetto alle prime riproduzioni a colori, soggette a rapido deterioramento. Inoltre, il bianco e nero garantiva una certa uniformità: opere di musei diversi, fotografate da mani differenti, venivano ricondotte a un linguaggio visivo omogeneo che favoriva il confronto critico e lo studio comparativo.
4. L’oggettività contro l’illusione
Zeri diffidava della fotografia a colori perché la riteneva “illusoria”. Essa, infatti, produceva l’impressione di una fedeltà che raramente corrispondeva al vero: le tonalità erano alterate dall’illuminazione, dalla pellicola, dalla stampa. Un’immagine a colori poteva sembrare più “vera”, ma in realtà era spesso più ingannevole. Il bianco e nero, proprio perché dichiaratamente parziale, agiva da correttivo: non prometteva naturalismo, ma costringeva di fatto l’occhio a non confondere la riproduzione con l’opera. In altre parole, il monocromo educava a una visione critica e non illusoria.
5. L’arte come esercizio di memoria visiva
Per Zeri, lo studio dell’arte non era mai solo un fatto erudito, ma un esercizio di memoria visiva. L’archivio fotografico serviva a fissare nella mente forme, dettagli, confronti. Il bianco e nero, riducendo l’opera alla sua essenzialità, agevolava questo processo mnemonico: l’occhio allenato tratteneva più facilmente i segni distintivi, come in un alfabeto visivo fatto di tratti e rapporti spaziali. In questo senso, la fotografia in bianco e nero diventava una sorta di “mappa mentale” della storia dell’arte, uno strumento di interiorizzazione e di riconoscimento immediato.
6. Una pedagogia dello sguardo
Infine, la predilezione di Zeri per il bianco e nero è anche una scelta pedagogica. Chi ha seguito le sue lezioni o più semplicemente i suoi interventi televisivi ricorda la sua insistenza nel mostrare fotografie monocrome, proprio perché voleva allenare lo spettatore a “vedere” piuttosto che a “guardare”. La sua era una scuola della visione, fondata sulla disciplina, sul distacco e sulla concentrazione: qualità che il bianco e nero favoriva, evitando la fascinazione estetizzante del colore.
Conclusione
La predilezione di Federico Zeri per il bianco e nero non va dunque interpretata come una diffidenza verso la modernità tecnica o come un gusto personale, ma come parte integrante di un metodo e di una filosofia della visione. In un mondo dominato dall’immagine a colori, Zeri ricordava che lo sguardo critico si nutre di essenzialità, di attenzione alle forme, di memoria comparativa. La sua scelta si rivela oggi ancora più attuale: nell’epoca della sovrabbondanza digitale e dell’iperrealismo visivo, il bianco e nero di Zeri resta un invito a tornare all’essenza dello sguardo e alla responsabilità del vedere.

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