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La poesia sottile della consunzione (Tra le rovine)


di Paolo Veronese


Caspar David Friedrich nel 1830 dipinse Il tempio di Giunone nella valle di Agrigento, sovvertendo un principio che più o meno consci si segue anche oggi nel fotografare un edificio qualsiasi. Invece che dal colonnato – o quanto resta – frontale, si dedicò alla riproduzione dalla prospettiva opposta, dal retro. Era una celebrazione della rovina in sé, una soluzione estetica esatta, a ritrovare nel luogo della visione il rovesciamento dei principi, della sopraggiunta irriconoscibilità di metope e glifi, ma pure di dèi che ormai sembrano aver abbandonato i marmi. Sembrano, eppure nella consunzione ad opera del tempo, Α e Ω fra gli artisti, è lecito leggere tutta la cifra del mondo, tutta la funzione della natura e tutto il digrignare di ingranaggi in un cosmo remoto. Solo Chronos sembra assiso nel suo impero sulla vanitas vanitatum concreta di tutte le cose, e fra sterpi e monche colonne l’uomo è davanti all’essere della storia, non sua creatura ma creatura in essa, indiviso, passatore.





La prospettiva ribaltata di Friedrich, che osserva nell’Abbazia nel querceto (1810) i rami avvòlvere le vecchie mura e ne restituisce un tutt’uno inviolabile è quella dell’individuo che scorge nel sacro in disfacimento tutta la sua potenza, e dove lo sfregio o il residuo, o gli sterpi e il vento abitano nuovamente ciò che non è più. Ciò che è, tuttavia. Arcana bellezza.





…E pure, all’ombra di queste rovine/ i muratori erigono cantando/ nuove fragili case, decorate/ con ricchi stucchi e con modanature,/ quasi senza coscienza che degli anni/ il lavorio corrode ogni opra umana,/ che, attraverso ogni crepa e ogni fessura/ nei muri, il seme della distruzione/ le loro van difese opere invade.

(Questo brano poetico di Thomas Hardy è contenuto nel libro “Tra le rovine”, di Christopher Woodward, edito qualche anno fa, di cui in calce offro una brevissima recensione). Tra le rovine camminare e nelle rovine osservare: che siano tronconi di colonne o capitelli a terra, cercare tra le vene del marmo affiorato qualcosa di non dissimile dagli anelli di un albero tagliato, intravedere il tempo, il non luogo, compiere un balzo nel mistero. Tempo ed elegia nelle viscere di un tempio non di meno che nei telai abbandonati e rugginosi di una vecchia fabbrica data alla polvere.


P.V.




Tra le rovine, Christopher Woodward, Guanda In Ruins, per l’appunto, questo libro di uno storico dell’architettura inglese, ha in sé lo spirito di un Grand Tour d’altri tempi, e lo si potrebbe mettere in scaffale accanto a Goethe, Ruskin, Gregorovius e tutti gli avventurieri letterari che si sono trovati in uno stato particolarissimo dell’anima, che è l’ammirazione estatica delle rovine, le vestigia che popoli più antichi han lasciato e che il tempo ha attraversato, abitato, eroso. Laddove l’uomo non ha potuto ascrivere la storia all’astrattezza dei musei, in un certo senso luoghi asettici dove le opere del‟uomo sono scardinate dal senso del luogo, del nómos d’appartenenza. Vero e proprio elogio delle rovine, corredato ampiamente di riferimenti letterari, Byron, Shelley e quanti altri che furon preda di quest’estasi che qualcosa di divino presiede. Il viaggio, come necessario, comincia da Roma. Prezioso.


Paolo Veronese

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