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De umbra clamavit

di Paolo Veronese


Torno a parlare a voi, ombre silenti, urne scordate che non rispondete che il piombo inciso al marmo, oscure lettere che in mente gioco e giro come in cerca di un senso, d’una verità velata dietro la tenda dell’oscurità. E aspiro e ascolto la sorgente appresso ruscellar tra i pensieri miei dei nuovi, parole come se sgorgasse al suolo una fontana fresca e dirompente da un’antichissima ferita. Un mondo esangue ora circonda e ammutolisce ancor di più la sera. M’incammino per udire i miei passi trascinare groppi di ghiaia, a rompere di suono questa pagina bianca, a farla viva di vita eppure qui, tra i pii crepuscoli di ogni esistito, qui tra gli odorosi cipressi, a lungi indovinar lanterne e nomi, e storie intersecate, e cuori battuti nel mio tempo eppure schiusi a maggior Luce. Oh sì, Iuce, oh sì voce nelle tenebre dove il ferro arruggina e marce le catene dell’infanzia rumoreggian lontane alle altalene. O sì voce che in ogni canto intona un suo sospiro, dissigilla il labbro per tanto tacito, e ridice il vecchio poema d’amore e morte a questi orecchi d’esilio stanchi, di colore avidi. O sì, tra le cortecce secche incide come il mariuolo i versi che ha rubati nella carne arborea il pugnale che ficcato nel busto o nella mente sanguinava le gocce dell’inchiostro che la ghiaia beveva e riassorbiva nel solenne suo freddo umor segreto. Via, correre e qui sparpagliare i ciottoli dell’innocenza, strappare fruste e siepi, dar di matto e sentir ebbrezza uscire dalla bocca, ad infuocare il fiato in lotta, a tutto, a tutto, che allontani il pensiero, dove la notte ha posto il suo nudo confine, il suo silenzio.


P.V. 1-IV-2018



Arnold Böcklin, Campagna romana, 1852.


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