Prima che la poesia sia estinta, voglio urlare.
Prima della sua conclamata fine, prima di assestare un colpo secco, e strappare l’ultimo foglio per goderne lo strazio della cedevole carta, o ridere delle muse vere o bugiarde..
Questo oscuro vezzo di scrivere andando a capo a mezza pagina, sprecone di un buon pezzo di carta, e magari infilarci una metrica come a contare grani di rosario, ha fatto il tempo suo, è storia premoderna, vizio; e se a trent’anni ancora si concede tempo al frivolo scorrere di parole inusitate, v’è indizio di cretineria: concordo, mi rassegno e sfiduciato relego le mie carte a incartare pasticcini come già si fece con premurosa lungimiranza e mi trattengo solo qualche tozzo di pane salato.
Ma prima che sia estinta, e nelle roche gole un millenario carme cessi voce, voglio urlare.
E sillabare un canto. Che sia immemore. Che sia immorale.
La dolcezza melliflua forse ancora s’adatta, tarda e crepuscolare, fra le tendine tutte trine e rime, a dar voce e accompagnamento nei salotti dove signorine dell’ora del tè chiacchierano e spettegolano, tutte eccitate da qualche frusto di frase dove menare metafore scarse e inopportune, dove la parola ‘labbra’ accostata a qualcosa che non c’entrerà mai, ma che sia solo bizzarro, dà un subitaneo eccesso di risolini.
E s dirà cara poetessa, e si dirà che bell’immagine e si dirà che ardore.
Come siamo finiti, qui, noi fogli stropicciati e inchiostrati da man sinistra a reggere il baccarat e la canasta, la tombola e il tovagliolino, a imbrattarci di zucchero e pepe di erotiche esotiche avventure da tre soldi e titoli sempre eguali. A continuare pagina dopo pagina la lagna del cucchiaino che gira e batte il bordo della chicchera di porcellana? Altro tempo in cui si battevano botte. Almeno i bordi delle botti, dove dietro il legno riposa il nettare che suscita il canto, come l’acqua dell’Aganippe. Macché, macché, non c’è più nulla di cui ubriacarsi, non più gola in cui ci valga trattenere i liquidi versi. Addio.
P.V.
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