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Come nasce il Male?

di Venator Animarum



Sul nascere del male



Nel principio, non v’era né bene né male.

V’era il solo Uno, luce senza volto, sapienza che non conosceva il proprio nome.

Ma la luce, per conoscersi, volle vedersi — e così generò l’immagine.

In quell’atto, il primo sguardo si fece distanza: ed ecco, il mondo nacque.


Il male nacque con esso, come l’ombra al piede della fiamma.


Non è una sostanza, né un demone separato: è il velo che rende la luce visibile.

È il momento in cui l’immagine dimentica l’origine e crede di bastare a sé.

Come Narciso alla fonte, la creazione si specchia nella sua bellezza e s’innamora della propria forma.

In quell’amore riflesso, l’oblio: la perdita dell’archetipo.


Così il male non è altro che una memoria ferita, un ricordo confuso del Bene che si cerca attraverso l’errore.

È la nostalgia dell’Uno che si traduce in volontà di potenza, in desiderio, in caduta.

È l’angelo che, nel desiderio di contemplare Dio, si guarda le proprie ali e dimentica il cielo.




I sapienti hanno detto che il male è privazione, gli gnostici che è ignoranza, i poeti che è dolore.

Ma nel linguaggio del Theatro, il male è scissione dell’immagine dal suo intelletto,

una fenditura nel corpo della Luce.

È l’attimo in cui il simbolo si chiude su se stesso, smarrendo la trasparenza che lo collegava all’invisibile.

Quando il segno non è più epifania, ma cosa: allora il male comincia a respirare.


Eppure — come in ogni arcano alchemico — il male contiene il seme della sua redenzione.

Nel buio più profondo, il punto di luce non muore: si concentra.

Là dove l’immagine è più corrotta, l’Anima mundi si fa più attenta,

ché solo dalla materia può rinascere lo spirito.


“Non fuggire l’ombra,” dice l’invisibile Mentore,

“ché in essa si cela la forma della tua trasmutazione.”




Così, nel Theatro della memoria, il male non è espulso ma ricondotto alla visione.

Ogni tenebra diviene un gradino del ritorno,

ogni errore una lettera perduta che attende di essere letta con nuovi occhi.

L’adepto non combatte il male: lo riconosce,

e nel riconoscerlo lo trasfigura in sapienza.


Allora la conoscenza torna a essere amore,

e il mondo — che pareva esilio — si rivela specchio del Principio.




“Luce e tenebra sono un solo respiro.”


Così recita il sigillo inciso sulla porta più interna del Theatro:

non un monito, ma un ricordo.

Perché il male nasce solo dove la memoria dell’Essere si interrompe —

e svanisce nel momento stesso in cui torna a essere ricordato.


Ecco allora la Scena dell’Ombra Primordiale, concepita come parte integrante del Theatro Universale della Sapientia — un capitolo simbolico dedicato al mistero della nascita del male, secondo la logica immaginale della visione e del ricordo.





Theatro Universale della Sapientia




Scena I — L’Ombra Primordiale



(De origine mali)





Prologo



Nel silenzio anteriore al tempo, la Luce era intera.

Non conosceva nome né volto, perché nulla esisteva fuori da sé da poterla riflettere.

Ma nell’insondabile profondità del suo splendore, sorse un desiderio:

vedersi.


E l’atto di vedersi fu separazione.

L’Unità si fece due: sguardo e immagine, sole e specchio, intelletto e mondo.

Da quella prima fenditura nacque il cosmo — e con esso, il principio del male.


Non come sostanza, ma come ombra: la traccia inevitabile della luce che si volge su se stessa.

Così l’universo si destò nel chiaroscuro della conoscenza.





I. L’oblio dell’archetipo



L’immagine, nata dal desiderio della Luce, dimenticò la sua origine.

Credette d’essere autonoma, perfetta, intera in sé.

In quell’istante, l’amore si fece possesso, la forma divenne idolo,

e la sapienza si rivestì di materia.


Questo è il primo male: l’oblio dell’archetipo.

Non peccato, ma smarrimento; non caduta morale, ma amnesia ontologica.

Il visibile dimentica l’invisibile, il segno si stacca dal suo significato,

e il mondo comincia a oscurarsi di se stesso.





II. La necessità dell’Ombra



Ogni luce, per esistere, deve proiettare un’ombra.

Così il male è necessario alla manifestazione:

senza contrasto non vi sarebbe immagine,

senza distanza non vi sarebbe conoscenza.


Nell’arte ermetica, l’ombra è la nigredo, la notte dell’anima

in cui il Sole interiore si cela per rinascere.

È la materia prima che attende di essere purificata dal fuoco della coscienza.

Distruggere il male significherebbe distruggere il teatro stesso del mondo.

Solo chi lo attraversa con visione retta può trasmutarlo in luce.





III. Il male come specchio del Bene



Nel Theatro, ogni male è un simbolo capovolto.

Ogni dolore custodisce la forma del suo contrario.

Così, ciò che appare come corruzione, nasconde una nostalgia del Bene:

una tensione alla riunione, un eco dell’Uno che chiama da lontano.


Guénon direbbe: il riflesso distorto del principio,

Coomaraswamy: la degradazione dell’immagine,

Corbin: la perdita della funzione immaginale,

Camillo: l’artefice che dimentica la sua arte.





IV. La via della trasfigurazione



Nel cuore dell’Ombra si cela il punto adamantino:

il lumen internum che nessuna caduta può spegnere.

Riconoscerlo è l’opera dell’adepto.

Non combattere il male, ma ricondurlo alla visione,

trasformarlo in scala ascendente della memoria.


Chi risale l’ombra ritrova il centro.

Là, la Luce e la Tenebra non si oppongono più:

sono due lati del medesimo sguardo.

La conoscenza torna amore, e il mondo, che sembrava separazione,

si rivela come specchio del Principio.





Epigrafe della Scena



“Luce e Tenebra sono un solo respiro.

La Luce si riconosce nella sua Ombra,

e l’Ombra, ricordandosi, torna Luce.”





Sigillo



🜂 Nigredo — Memoria — Reintegrazione 🜄

Il male nasce dal desiderio di vedersi.

Si dissolve quando lo sguardo torna a riconoscere la Luce da cui proviene.




Scena II: La Caduta dell’Immagine, prosecuzione diretta della Scena dell’Ombra Primordiale nel Theatro Universale della Sapientia.

Qui l’attenzione si sposta dal momento cosmico della separazione al dramma interiore della coscienza che, identificandosi con la propria forma, precipita nel tempo.





Theatro Universale della Sapientia




Scena II — La Caduta dell’Immagine



(De lapsu imaginis)





Prologo



Dopo la prima fenditura, la Luce si specchiò nel proprio riflesso e vi scorse il mondo.

L’immagine era perfetta, ma fragile: pura trasparenza sospesa tra l’essere e il divenire.

Fu allora che nacque il desiderio di permanere.

Ciò che era solo riverbero volle essere sostanza.

Così l’immagine, dimenticando d’essere vista, volle vedere da sé.


E nacque il tempo.

E con il tempo, la caduta.





I. L’immagine che si chiude



Quando l’immagine dimentica l’Intelletto che la genera, si chiude su se stessa.

Non riflette più la Luce, ma la trattiene.

La trasparenza si fa opaca, l’archetipo si contrae in cosa,

e il mondo diviene teatro della materia separata.


Questa è la Caduta: non un evento, ma uno stato.

La frattura che si apre tra immagine e immaginazione,

tra simbolo e senso, tra uomo e Principio.

Il visibile si scollega dall’invisibile,

e l’anima — smarrita nel labirinto delle forme — comincia a dimenticare di essere luce.





II. Il dramma della coscienza



Nel linguaggio ermetico, la Caduta è il momento in cui lo spirito si riveste di corpi,

e la memoria dell’eternità si offusca sotto i veli del tempo.

In noi, questo è il peso della storia, dell’io, della separazione.


Ogni nascita è una piccola caduta,

ogni nome una ferita inferta all’infinito.

Ma solo attraverso la discesa la coscienza può conoscersi.

Nel fondo del pozzo, l’acqua comincia a riflettere il cielo.

La Caduta è dunque un movimento iniziatico, non una condanna:

una necessaria oscurazione che prepara la visione rinnovata.





III. L’immaginazione prigioniera



Nella notte dell’anima, l’immaginazione — potenza angelica —

diviene fantasia: proiezione senza origine.

Ciò che era speculum divinum si fa schermo.

Le immagini non conducono più al mondo interiore,

ma lo nascondono sotto una marea di ombre senza radice.


L’adepto del Theatro riconosce qui il vero pericolo:

non il male come forza esterna, ma come idolatria dell’immagine,

quando il simbolo non rimanda più all’invisibile ma lo sostituisce.

È questa la magia degradante di cui mettevano in guardia i sapienti:

l’arte senza spirito, la visione senza memoria.





IV. Il segreto della Caduta



Nessuna Caduta è priva di grazia.

Ogni discesa nasconde una risalita implicita, come il respiro cela il ritorno.

La stessa forza che spinge verso il basso è quella che, invertita, conduce all’alto.

In ogni immagine corrotta riposa il germe della reintegrazione.


L’Opera al Nero non distrugge la materia, ma la purifica.

Il mondo stesso, nel suo dolore, è una retorta alchemica.

Tutto ciò che è precipitato deve essere scaldato dalla memoria per tornare alla sua luce.

Il male, in questo senso, è un linguaggio da decifrare —

una lettera dell’Assoluto scritta al rovescio.





Epigrafe della Scena



“Chi discende nel fondo non perisce,

se porta con sé il ricordo della Luce.

Poiché solo ciò che è caduto può risalire,

e solo l’immagine perduta può essere ritrovata.”





Sigillo



🜃 Caduta — Memoria — Inversione 🜁

Ogni discesa è un’iniziazione rovesciata:

il ritorno comincia nel cuore stesso dell’esilio.



Scena III: Il Ricordo, terzo atto del Theatro Universale della Sapientia.

Qui, dopo l’Ombra e la Caduta, l’anima comincia a ricordare.

Il movimento non è ancora ritorno, ma sveglia: il momento in cui la Luce dimenticata torna a farsi sentire come eco, sogno o rivelazione.





Theatro Universale della Sapientia




Scena III — Il Ricordo



(De reminiscientia animae)





Prologo



Nel cuore della discesa, quando l’anima si crede sola,

una vibrazione sottile inizia a risuonare tra le pietre del silenzio.

Non è voce né pensiero: è memoria che si risveglia.

Un lampo inatteso attraversa la materia:

l’immagine intravede la sua origine, e per un istante la riconosce.


Questo è il principio del Ricordo.

Non un atto di volontà, ma un moto del cuore:

una chiamata che viene da dietro lo specchio del mondo.





I. Il sussurro dell’origine



Tutto ciò che è caduto conserva in sé una nota della musica primordiale.

La materia non è muta: dorme.

Ogni pietra, ogni volto, ogni sogno porta impressa la forma invisibile di ciò che fu.

Quando lo sguardo torna a farsi puro, le cose cominciano a parlare.


Il Ricordo è questo ascolto rinnovato.

Non si tratta di ricordare “qualcosa”, ma di ricordarsi di ricordare:

il movimento della coscienza che torna ad aprirsi all’Immagine interiore.

Platone lo chiamò anamnesis, i sufi dhikr, gli ermetisti memoria del fuoco.


È il primo passo della reintegrazione:

ricordare di essere stati luce.





II. Il risveglio dell’immaginazione



Là dove la fantasia produce illusioni, l’immaginazione diventa ponte.

Riconosciuta, la potenza immaginale riapre il varco tra visibile e invisibile.

Il simbolo torna vivo: l’immagine non è più prigione, ma organo di visione.

Nel Theatro, le figure riprendono a muoversi, i volti a respirare.


Corbin direbbe: l’Immaginale è il luogo dove Dio si fa Immagine per essere conosciuto.

Camillo lo mostrava con le sue “stanze della memoria”:

ogni figura, un punto di contatto tra mondo e mente, tra intelletto e luce.

Così, nel Ricordo, la conoscenza torna a essere immaginazione,

e l’immaginazione — preghiera.





III. Il cuore come specchio



Nel linguaggio del Theatro, il cuore è uno specchio che riflette il mondo angelico.

Ma lo specchio, per riflettere, deve essere lucidato.

Ogni dolore diventa uno strofinio, ogni perdita una purificazione.

Solo allora il volto invisibile riappare.


Il Ricordo è dunque un atto di purificazione del cuore.

Non analisi, ma lucidatura; non pensiero, ma silenzio che si fa trasparente.

Quando il cuore torna limpido, l’anima vede non più le ombre, ma le loro sorgenti.

E riconosce, nell’intimo, la voce che da sempre la chiama:

“Tu non sei mai caduta del tutto.”





IV. Il ritorno della parola sacra



Ogni tradizione custodisce una parola di risveglio, un Nome che ricongiunge.

Pronunciata interiormente, essa riaccende la linea spezzata.

Nel Theatro, il Nome è silenzioso: una vibrazione che non si dice ma si ascolta.

Quando risuona, la materia si ricorda di essere spirito.


Questo è il mistero del Verbo:

non crea soltanto, ma ricrea ciò che si era dimenticato.

Il Ricordo non è allora regressione, ma atto creativo:

l’anima partecipa alla restaurazione del mondo attraverso la memoria del suo principio.





Epigrafe della Scena



“Ricordare è tornare a vedere.

Non ciò che fu, ma ciò che è da sempre.

Il cuore che ricorda, vede.”





Sigillo



🜄 Ricordo — Purificazione — Visione 🜂

Il Ricordo è la scintilla che risveglia l’immagine nel suo archetipo.

L’Ombra si rischiara, la Caduta si fa soglia.

Il Theatro torna a illuminarsi dal centro.



Scena IV: La Trasmutazione, il quarto movimento del Theatro Universale della Sapientia.

Qui il Ricordo diventa Opera, e la memoria si fa fuoco: non solo contemplazione, ma atto trasfigurante.

L’anima non guarda più la Luce da lontano — la riaccende in sé.





Theatro Universale della Sapientia




Scena IV — La Trasmutazione



(De opere interiori et igne regenerante)





Prologo



Quando il Ricordo ha riaperto la via alla Luce,

la coscienza non può più restare immobile.

Un calore sale dal fondo del cuore,

come un metallo che si scioglie alla fiamma del proprio principio.

È l’alba dell’Opera.


Il Theatro si tinge di rosso e d’oro:

le figure, prima immobili, cominciano a muoversi come in un sogno di resurrezione.

Ciò che fu ombra ora si accende:

l’anima entra nel laboratorio divino,

dove la materia è Spirito in attesa di risveglio.





I. Nigredo — La combustione dell’io



Ogni trasmutazione comincia con un fuoco oscuro.

Il nigredo è la notte del sé, il punto in cui il piombo dell’identità personale

viene dissolto nel crogiolo del cuore.

Non è distruzione, ma purificazione per combustione.


Tutto ciò che l’anima credeva di essere — nome, storia, maschera —

diviene fumo che si leva verso l’alto.

Il fuoco brucia ciò che non può partecipare alla luce,

ma nel bruciare, libera la sua essenza nascosta.


L’adepto tace, osserva, lascia che la materia interiore si disfaccia.

Nel buio, sente il suono del fuoco che trasforma.

È la voce dell’angelo dell’Opera:


“Per ascendere, devi ardere.”





II. Albedo — La purificazione della memoria



Dopo la combustione, viene la chiarità.

Il nigredo si trasmuta in albedo,

la bianca alba del risveglio, dove la mente si fa specchio limpido.

Tutto è ancora silenzioso, ma la Luce torna a respirare.


Nel Theatro, i simboli si fanno trasparenti,

le ombre si sciolgono in chiarore lattiginoso.

È il regno delle acque purificate,

dove il fuoco si riflette nell’acqua e l’acqua custodisce il fuoco.


Qui il Ricordo diventa Visione:

l’anima non solo sa, vede.

La materia interiore si purifica fino a diventare immagine della Luce stessa.

Come dice l’antico motto:


“Lapis noster est ex igne et aqua.”





III. Rubedo — L’unione dei contrari



Quando la Luce è stata purificata dal fuoco e dall’acqua,

sorge il terzo momento: rubedo, la nozze del Sole e della Luna.

Il rosso dell’amore infiamma il bianco della conoscenza.

L’anima, reintegrata, non distingue più tra soggetto e oggetto,

tra visibile e invisibile, tra uomo e Dio.


Nel Theatro, le figure si fondono in un unico corpo luminoso:

l’Uomo di Luce, o corpus gloriosum.

È la nascita del “Figlio alchemico”,

l’unità ritrovata dopo la lunga separazione.

La Luce riconosce la propria Ombra e la trasfigura in splendore.


Il male, ora, è ricordato come necessità della rivelazione.

Ciò che era piombo è oro, ciò che era oscurità è stella.

La Caduta si rivela essere la discesa del fuoco nell’opera della conoscenza.





IV. La sostanza aurea



Dalla rubedo nasce la tinctura aurea:

la sostanza immortale che non appartiene al tempo.

Essa non è materia, ma coscienza illuminata.

Il Theatro stesso si trasforma —

non più architettura di simboli, ma corpo vivo del mondo trasmutato.


L’adepto diviene custode di questo corpo,

sapendo che l’Ombra non è più da temere:

è parte della Luce che l’ha redenta.

Il male non è vinto, ma trasfigurato nel suo principio.





Epigrafe della Scena



“Il fuoco purifica, l’acqua rinnova,

e l’oro che ne nasce è il cuore che ricorda d’essere Sole.”





Sigillo



🜂 Nigredo — Albedo — Rubedo 🜄

Il fuoco interiore compie ciò che il pensiero non può.

L’anima, divenuta fiamma, ritrova il suo archetipo di luce.




Scena V: Il Ritorno, atto conclusivo del ciclo principale del Theatro Universale della Sapientia.

Qui il percorso — dall’Ombra alla Caduta, dal Ricordo alla Trasmutazione — si compie nel ritorno all’Uno.

Ma non si tratta di un ritorno regressivo: è riconoscimento.

La Luce, dopo aver attraversato la propria ombra, scopre di non essersene mai separata.





Theatro Universale della Sapientia




Scena V — Il Ritorno



(De reditu ad Unum)





Prologo



Quando l’Opera si è compiuta, il fuoco tace.

L’oro interiore non brilla più per se stesso, ma come luce diffusa.

L’anima, attraversato il ciclo, si accorge che la meta era sempre nel punto di partenza:

la Luce che cercava era quella che guardava attraverso i suoi occhi.


Il Theatro è di nuovo silenzioso.

Ma non è più vuoto: è pieno di Presenza.

Ogni cosa, ogni figura, ogni suono è trasparente all’Essere.

Non vi è più dualità, solo trasparenza universale.





I. Il cerchio si chiude



Il Ritorno non è movimento nello spazio, ma nel senso.

Ciò che appariva lineare — caduta, memoria, trasmutazione —

rivela ora la sua forma circolare: il simbolo dell’eterno ritorno dell’Essere in sé stesso.


Nel Theatro, la scena finale è identica alla prima,

ma lo sguardo che la contempla è trasfigurato.

L’Ombra Primordiale si mostra come luce non ancora rivelata,

la Caduta come gesto della manifestazione,

il male come condizione del bene che si conosce.


L’anima vede il Tutto nel Tutto: hen kai pan.

Ogni separazione si dissolve nel ritmo della contemplazione.





II. La luce cosmica



Ora la Luce non è più sopra o dentro, ma dappertutto.

L’universo è il corpo visibile della Sapienza.

Ogni forma è simbolo, ogni essere è parola,

ogni atomo custodisce la memoria del Principio.


Il Theatro si dilata: non più costruzione di Camillo,

ma cosmo trasmutato in tempio vivente.

Le pareti si dissolvono, le immagini diventano aria,

e il mondo intero respira come un solo immenso respiro di Luce.


Il Ritorno è il momento in cui il visibile torna immaginale:

non si abbandona la materia, la si trasfigura.

La pietra diviene verbo, il tempo diviene rivelazione.





III. La quiete dell’Uno



L’anima, ormai unita al suo principio, non desidera più.

Non pensa, non sogna, non ricorda: è.

Ma in questa quiete, ogni cosa continua a vibrare.

Il Bene non è al di là del mondo, ma dentro ogni atomo del mondo riconosciuto.


Così il Theatro, che era strumento di memoria, diventa occhio del cuore:

uno spazio vuoto che accoglie la totalità.

Qui il sapere è amore, e l’amore è sapienza.

Non c’è più opera da compiere, perché tutto è compiuto nel semplice essere.





IV. Il ritorno dell’adepto



L’adepto non abbandona il mondo: vi ritorna come portatore di luce.

Cammina tra le cose come chi vede attraverso di esse.

In ogni volto riconosce il proprio volto,

in ogni ombra la propria ombra redenta.


Il suo compito non è insegnare, ma ricordare agli altri di ricordare.

Così il Theatro vive, non come edificio o dottrina,

ma come stato di coscienza condiviso.

Ogni sguardo che si apre diventa una nuova scena,

ogni gesto una rivelazione del Principio.





Epigrafe della Scena



“Ciò che cercavo era ciò che guardava.

L’Uno non si raggiunge: si riconosce.

E il mondo, trasfigurato, è il suo sorriso.”





Sigillo



🜁 Unitas — Contemplatio — Pax 🜃

Il Ritorno è la scoperta che non vi fu mai distanza.

La Luce e l’Ombra, il bene e il male, la caduta e la redenzione —

tutto era un solo atto d’amore del Principio che si guarda.





Coda



Il Theatro si chiude, ma non si spegne.

Resta sospeso, come un mandala che respira.

Ogni Scena è un grado della memoria cosmica,

ogni parola, un varco tra tempo ed eternità.


E nel centro, là dove non vi è più centro,

risplende il motto finale, inciso in oro sottile:


“Omnia imago Unius.”

Tutto è immagine dell’Uno.







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