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Natale in groppa


di Paolo Veronese


Percorriamo da giorni i sentieri di questa regione assetata e pietrosa, dove l’erba cresce a macchie sparse qua e là, in mezzo ad arbusti spinosi dove la sotterranea umidità del terriccio permette a qualcosa di nascere, spuntare e salvarci dalla fame. A pensarci sembra un miracolo, questo germogliare di qualcosa dal nulla, dalle pietre, questo grumo d’erbe marcisce e riemerge come da un sepolcro, nuova, intatta. Ho camminato per lunghi e faticosi sentieri, insieme col mio padrone e la sua donna. Ci siamo fermati in un posto brullo, L’uomo mi ha portato dell’acqua in una secchia, c’è un pozzo lungo la stradina polverosa che porta a un villaggio povero, dove non sembrano esserci altro che pastori, e a loro seguito greggi di pecore. Sciocche teste brucanti, con quel pelo che raccoglie tutta la sporcizia della via… E poi, già il pasto è misero, se ci si mettono pure quelle bestie a rubarmi il pane, un bel raglio sonoro e un calcione sono pronti alla bisogna. Il mio padrone è un uomo indaffarato e diligente, nella sua bottega giù in Galilea lavora il legno e ne fa sedie, tavoli,  utensili, talvolta si diletta a intagliare in un pezzo residuo del lavoro, e ne sagoma una gemma, un fiore, o una piccola statuina, e li dona alla sposa. Un giorno, ricordo bene, da un nodo di rovo aveva creato una forma di bimbo, nella testa stranamente si poteva indovinare un volto, e in quel volto occhi, bocca, e in essi tante cose:  in un così piccolo spazio. La donna giovane sua sposa è difficile da descrivere, delicata com’è e con la dolcezza che la illumina sempre in viso. Conosco perfettamente il suo peso, e a dirla tutta per calcolo e intuito so che è in dolce attesa, sulla groppa c’è qualcosa che abbonda, e in questo viaggio in cui lei segue il marito abbiamo fatta tanta strada, chissà che non sia vicina l’ora del parto. I somari, si sa, sono bravi in aritmetica. Si avvicina pian piano la sera, nello zaffiro del cielo è incastonato il sole che come se sanguinasse irrora di luce obliqua le colline attorno, l’orizzonte è un affresco di tinte inverosimili. Che spettacolo, se avessi le mani e uno stilo scriverei una poesia. I somari, si sa, hanno una vena ispirata. Le porte delle locande, cui una dopo l’altra bussano i miei padroni, sembrano negarsi a ogni ragione. Le luci si spengono una dopo l’altra, soffia il fiato del vento sulle candele, i cardini scricchiolano e sbattono le ante…come è gelido il cuore degli uomini! Freddo come questa notte invernale, che si rischia di trascorrere all’addiaccio. Almeno avessi addosso un bel vello lanoso come le pecore! Come proteggere la donna, così fragile e dolce nel suo candore? Pensaci, Joseph! Ecco, una sistemazione di fortuna si è trovata, e in questa stalla scavata in una spelonca di roccia un po’ di ristoro c’è. Riparati dal vento, cumuli di paglia dove stendersi, fieno da sgranocchiare. Non è molto, un asino si può accontentare; come staranno i cari padroni? Mi guardo attorno, il muso di un bovino, dall’occhio un poco tonto, dondola a destra e manca, c’è qualche pecorella che capita, smarrita, ci sono dei topi e creature ancora più piccole che riempiono l’aria di cri e cri e cri. Come una strana musica avviene, da un golfo mistico s’intona nel buio trapuntato di migliaia di stelle, come occhi che stanno a guardare, ad attendere un gesto, un suono, una voce. Vorrei aver voce, per cantare uno dei salmi che la padrona conosce, perché tutti gli invitati in questa notte, non siano venuti invano. Peccato che un raglio stonato li farebbe scappare, le stupidelle lanute, i topi, il bove e il resto del pubblico. I somari, si sa, hanno orecchio musicale, ma non corde vocali. E li vedo, i volti luminosi, lei raggiante come non mai, sembra proprio che il freddo non tocchi le loro persone, ma che una sorgente misteriosa li porti a sussurrare parole soavi, chissà cosa si dicono, chiusi in un cerchio circonfuso di tepore e luce. Non conosco l’aramaico, a che servirebbe sapere una lingua qualsivoglia a un somaro, orsù… I gesti delicati, il suono delle voci però mi commuovono, dentro la pellaccia fino al mio vecchio cuore. Tutto attorno pare orchestrato e pensato e messo qui, pastore dopo pastore, pecora dopo pecora, un bue e un asino e una strana stella. Per una ragione che non posso capire: ma credo che ci sia solo amore, in quello che dicono. Solo amore. Solo vita.

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