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Il silenzio del rumore


di Carolina Guasina


Avete mai provato ad ascoltare il rumore provocato dalle auto in transito su una strada, magari di sera, quando il fragore del vociare umano, dei clacson e del traffico svanisce? Intendo proprio il solo e unico transitare delle auto, il loro scivolare sull’asfalto in modo regolare e cadenzato.

In una tranquilla sera quasi primaverile può capitare di trovarsi a camminare accanto ad una strada senza nessuno intorno, senza distrazioni o rumori. “Che silenzio!” si potrebbe pensare. In realtà, un’affermazione simile può essere proferita da chi sente, non da coloro che ascoltano. Faccio questa distinzione perché è fondamentale nella percezione che abbiamo del mondo e della realtà; è essenziale tanto quanto la differenza tra vedere e guardare, mostrata in modo molto esaustivo da Roberto Pasini nel suo libro Vedere e guardare. Le avventure dell’occhio nell’arte contemporanea. In esso egli considera le differenze di questi due approcci alla visione e crea una sorta di tabella di cui qui riporto alcuni elementi Vedere: passivo, globale, indiretto, universale, non intenzionale, fisiologico, indefinito, sintetico. Guardare: attivo, parziale, diretto, individuale, intenzionale, neurologico, definito, analitico.

Se sostituiamo ai due poli la coppia sentire e ascoltare troviamo le stesse differenze, ma applicate ad un altro senso, l’udito. Ci troviamo all’aperto, come si diceva prima vicino ad una strada non molto trafficata, dal momento che è sera; la luce è quella dei lampioni che illuminano porzioni di realtà altrimenti nascosti e imperscrutabili. Se ci mettessimo ad ascoltare, scopriremmo dei suoni fino a quel momento trascurati, e ci potrebbe colpire in modo particolare il suono delle ruote delle auto che scivolano sull’asfalto. Non si tratta del rumore del traffico, non sentiamo suoni forti, rombi, squilli e stridori, bensì il solo scivolare, un suono sibilante, un fruscio indistinto, regolare e perturbante. Il famoso compositore e teorico musicale americano John Cage (Los Angeles, 5 settembre 1912 – New York, 12 agosto 1992) disse in’intervista “The sound experience which I prefer is the experience of silence. And the silence, almost everywhere in the world now, is traffic.” (L’esperienza sonora che preferisco è l’esperienza del silenzio. E il silenzio, quasi ovunque nel mondo ora, è il traffico.)

Egli teorizzò il silenzio come composizione musicale, di cui forse la punta più alta è il famoso brano 4’33”, in cui la vera melodia è costituita dai rumori ambientali prodotti dagli uditori: un colpo di tosse, un movimento, uno sbadiglio. 4 minuti e 33 secondi di silenzio apparente. Il fatto che Cage si riferisca al traffico non è casuale. Egli aveva capito che nel mondo contemporaneo il silenzio vero e proprio non esiste e che un fattore fondamentale nella nostra quotidianità, soprattutto dal punto di vista dell’udito, è il traffico. Ora, anche nell’intervista di cui sopra, in sottofondo si poteva sentire il frastuono delle auto e dei clacson, ma non è questo tipo di rumore che ci interessa in questo contesto. Qui si parla di suoni e non di rumori, di lievi fruscii e non di rombi. Dal punto di vista visivo, si possono citare due artisti che a mio parere aiutano a visualizzare il concetto. Da una parte Jackson Pollock e il suo White light del 1954 dove possiamo percepire una visione caotica, frastornante e convulsa, componente che caratterizza la pittura americana detta Action painting. In quest’opera in particolare sono presenti linee rette di vari colori, simili alle luci dei lampeggianti delle auto, che sfrecciano ad alta velocità e che non abbiamo il tempo di afferrare.



I quadri della maturità di Pollock sono rumorosi, fanno chiasso e non conducono l’occhio in un centro, poiché IL centro non esiste, sono omogenei nella loro confusione. Successivamente Pollock sembra accorgersi del fatto che troppo rumore locale può portare ad uno schiamazzo collettivo e quindi allo zero acustico (e di conseguenza all’assenza comunicazionale); per questo successivamente inserirà nelle sue opere anche elementi che serviranno a smorzare il frastuono, ma questa è un’altra storia.

Dall’altro lato abbiamo un artista che potrebbe incarnare il silenzio del rumore, ovvero Kazimir Malevič e il suo Quadrato bianco su fondo bianco datato 1918. Quest’opera è potente, nella sua essenzialità. E’ un punto estremo della pittura contemporanea, in cui il soggetto non esiste più in modo evidente in quanto è stato sostituito da un colore, il colore dell’azzeramento, dell’apparente silenzio: il bianco. In realtà il silenzio che deriva da quest’opera è un silenzio denso, come le pennellate stesse. È un silenzio mistico, di contemplazione di un’arte suprema che pone l’opera a sostituzione delle icone russe davanti alle quali l’uomo poteva contemplare l’Assoluto.



Con questo non voglio paragonare l’arte suprematista di Malevic al traffico serale in una tranquilla cittadina nel bolognese, sia chiaro, ma il senso di tutto questo è che il silenzio fa rumore, sia esso un fruscio di auto o una pennallata bianca che racchiude in sè il silenzio rumososo del pensiero.



Il silenzio del rumore atto II.

Dal Teatro dell’assurdo a Pulp Fiction


[...]

Nella seconda metà del Novecento, il critico Martin Esslin conia il termine Teatro dell’assurdo, assegnandolo come titolo alla sua pubblicazione del 1961. Con esso designa le opere scritte nella prima metà del secolo da drammaturghi come Samuel Beckett e Eugene Ionesco; per Esslin il lavoro di questi autori consiste nella trasposizione in ambito artistico del concetto filosofico di assurdità dell’esistenza, elaborato dagli autori dell’Esistenzialismo (Jean-Paul Sartre e successivamente Albert Camus).

Le caratteristiche principali del Teatro dell’assurdo sono l’abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale. La struttura tradizionale del dramma (trama, concatenazione e scioglimento finale degli eventi) viene abolita e sostituita da una successione di fatti alogica, legati tra loro anche se apparentemente senza alcun significato. La peculiarità che più ci interessa in questo caso è che questo tipo di scritti teatrali si caratterizza per dialoghi senza senso, ripetitivi e serrati (che nonostante il nonsenso a cui lo spettatore assiste, sono capaci di suscitare anche il riso, oltre allo stupore e alla consapevolezza del dramma esistenziale).

Si possono analizzare per esempio due opere i cui autori ho citato poco sopra, ovvero Aspettando Godot (1952) di Beckett e La cantatrice calva (1950) di Ionesco. Entrambe fanno parte della categoria del cosiddetto Teatro dell’assurdo e in entrambe si possono riscontrare le caratteristiche tipiche di questi drammi.

Il primo tratta la condizione dell’Attesa. Due personaggi, Vladimiro ed Estragone, vestiti come straccioni, aspettano un uomo chiamato Godot che non hanno mai incontrato e che dovrebbe offrire loro lavoro. Oltre a loro, altri due personaggi, Lucky e il suo padrone Pozzo, legati da una corda, entrano in scena in entrambi gli atti in cui è suddiviso il testo. La loro attesa è caratterizzata da immobilità e impossibilità di qualsiasi movimento, sia mentale, che spirituale, che fisico, nonostante alcuni momenti in cui i due cercano di cambiare la loro condizione, pensando di andarsene (cosa che non succederà mai) o addirittura di suicidarsi, impiccandosi all’unico albero presente sulla scena.

Le varie interpretazioni che sono state date a quest’opera spaziano dalla religione, per cui Godot sarebbe Dio (per via del termine God in inglese), all’economia, dalla politica alla filosofia. Quella che più mi convince è sicuramente di tipo esistenziale, secondo cui il tema dell’intero dramma è l’Attesa pura e semplice, con tutto il suo universalismo; Attesa a cui ognuno assegna un nome.

Il testo è caratterizzato dal dialogo, intervallato da pause, dei due protagonisti tra loro e di questi con la coppia costituita da Pozzo e Lucky. L’azione è minima, si può affermare che i due giorni (o più probabilmente i mesi, perché nel frattempo all’albero crescono le foglie) che intercorrono dall’inizio alla fine del dramma siano completamente vuoti, riempiti solamente dalle parole ripetitive e dalle azioni esigue dei pochi personaggi. La battuta ricorrente

ESTRAGONE      Andiamocene.

VLADIMIRO       Non si può.

ESTRAGONE      Perché?

VLADIMIRO       Aspettiamo Godot.

ESTRAGONE      Già, è vero.

riassume l’intero carattere dell’opera, ovvero il tentativo di muoversi, di andarsene, di cambiare la propria vita, e l’impossibilità di farlo, per paura di perdere qualcosa (in questo caso l’ipotetica offerta di lavoro del Signor Godot). I dialoghi tengono insieme la struttura dell’opera, e si può dire che facciano “molto rumore per nulla”, poiché non portano a nulla se non a far emergere il lato comico, che attrae il lettore (e lo spettatore) e alla perdita di tempo per i nostri due antieroi. Il loro chiacchierare, cianciare, a volte litigare per poi riappacificarsi, è totalmente vano e anzi deleterio, in quanto li svia dal prendere una decisione per la loro vita. Il tutto è, come si diceva prima, un’attesa del nulla, un continuo consolidarsi della consapevolezza (da parte del lettore) che ciò a cui si sta assistendo è l’assurdità della vita, il suo nonsenso e di conseguenza l’inadeguatezza che si prova di fronte a qualcosa di cui non si ha contezza. La vita è quindi rumore, dolore, sofferenza, solitudine e ripetizione, e l’uomo la vive, o meglio si lascia vivere da essa, in una dimensione spazio-temporale che non conosce.



Anche La cantatrice calva di Eugene Ionesco fa parte del Teatro dell’Assurdo, e anche per essa valgono le caratteristiche sopra citate, anche se il dramma si svolge in un interno londinese, il salotto borghese dei Signori Smith, a cui fanno visita i Signori Martin, anch’essi appartenenti alla borghesia inglese. I dialoghi sono anche in questo caso il perno e la struttura su cui si tiene l’opera, e mettono in mostra, nel loro continuo rimarcare l’appartenenza britannica (e in particolar modo londinese) dei protagonisti, l’ottusità di questa classe sociale, stigmatizzata in alcune frasi come

Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor SMITH, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese.

SIGNORA SMITH Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene questa sera. E’ perché noi abitiamo nei dintorni di Londra e il nostro nome è SMITH.

I dialoghi delle due coppie, e di questi con il Capitano dei pompieri che fa la sua comparsa nell’ottava scena, sono totalmente stereotipati e nonsense, tanto che in alcuni punti il riso lascia il posto all’incredulità, allo sconforto, al disorientamento e alla confusione.



Tante parole, tanto chiasso, tanto rumore, per che cosa? Per quale motivo continuare a parlare e a gridare, sconfinando nel ridicolo e nell’alogico? Forse, sembrano dirci questi autori, per riempire il vuoto incolmabile che caratterizza l’esistenza, il dolore di non sapere, il sapere di non conoscerne il senso, e così cercare di coprire il “sovrumano silenzio” che attanaglia la realtà.

Dal film Pulp Fiction di Quentin Tarantino



I silenzi che mettono a disagio… Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate, per sentirci a nostro agio? È solo allora che sai di aver trovato qualcuno di davvero speciale, quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.
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